Oltre la precarietà. Il sindacato informale nel capitalismo di piattaforma
Marco Marrone

Le mobilitazioni dei lavoratori di piattaforma – rider e driver in primis – hanno rivitalizzato negli ultimi anni il dibattito sulla sindacalizzazione del lavoro precario. Dopo anni in cui l’organizzazione del precariato è stata più che altro evocata, la mobilitazione dei lavoratori di piattaforma è stato il primo caso concreto della sua capacità “esplosiva”. L’immagine del rider con il suo cubo colorato è divenuta uno dei simboli più riconoscibili della lotta contro la precarietà del capitalismo digitale, segnando quello che è oramai un decennio di dibattiti sulle trasformazioni tecnologiche del lavoro. Eppure, per certi versi, il contesto del capitalismo di piattaforma sembrava porre ostacoli insormontabili nei confronti dell’azione sindacale. Questo non solo per la nota ostilità mostrata dalle piattaforme nei confronti di ogni forma di rappresentanza, ma anche per un modello di organizzazione del lavoro che sembrava neutralizzare ogni tentativo di organizing. Alti livelli di turnover, sorveglianza digitale pervasiva, competizione indotta dal ranking algoritmico, una composizione di classe frammentata e l’assenza di uno status giuridico chiaro: tutti questi elementi, spesso considerati come caratteristiche del nuovo regime del lavoro digitale, contribuivano a disegnare i contorni di un “delitto perfetto” nei confronti dell’azione sindacale tradizionale. Non a caso, questi ostacoli sono stati superati attraverso un registro di pratiche, strumenti e dispositivi discorsivi che appartengono piuttosto al mondo articolato dei movimenti sociali e del sindacalismo informale.
Per comprendere come sia stato possibile superare questi ostacoli, non basta puntare il dito nei confronti della burocratizzazione delle strutture sindacali tradizionali. La spiegazione secondo cui la difficoltà dei sindacati tradizionali, soprattutto nelle fasi inziali della mobilitazione, sia legata all’eccessiva rigidità e istituzionalizzazione del sindacato – seppur contenga evidentemente un elemento di verità – rischia di essere riduttiva e di non cogliere la complessità delle dinamiche che hanno dato forma alla lotta di rider e driver. Nel corso di questo contributo verrà suggerita una chiave di lettura alternativa incardinata attorno alla nozione di informalità, proposta qui come parola chiave per ripensare la concezione di precarietà vista come deviazione nei confronti di un modello standard di lavoro, quello cioè conosciuto all’apice del taylor-fordismo.
In questo senso, il termine precarietà, così come nato all’interno dei movimenti contro le riforme neoliberali del mercato del lavoro, non ha mai voluto indicare semplicemente una condizione di incertezza sul lavoro. Il tentativo era infatti piuttosto quello di svelare la natura politica dei processi di “flessibilizzazione” del mercato del lavoro, spesso presentati come soluzioni tecniche nei confronti delle turbolenze della globalizzazione neoliberista e della sua capacità distruttiva per le imprese nostrane. Non a caso, Standing, nel suo celebre The Precariat: The New Dangerous Social Class1 apre il suo testo a partire dal racconto delle Euro May Day in Spagna e Italia, ossia due paesi dove in più di altri – si pensi ad esempio all’Inghilterra e agli USA, dove i programmi neoliberisti della Tatcher e di Reagan hanno ricevuto un ampio consenso elettorale – le politiche neoliberali hanno sperimentato un’implementazione lenta, tecnocratica, ma non per questo meno efficace e pervasiva. In questa prospettiva, il termine “precarietà” intendeva piuttosto porre l’accento nei confronti della natura politica di queste riforme, il cui obiettivo esplicito era quello di smantellare le tutele lavoristiche per come queste si erano date in occidente nel corso dei Trenta gloriosi.
Se infatti allarghiamo lo sguardo oltre i confini del mondo occidentale, o lo portiamo al di là dell’egemonia fordista della metà del Novecento, ci rendiamo conto di come l’insicurezza e la povertà che caratterizza oggi il lavoro di rider e driver non rappresentano un’eccezione, né sono il semplice risultato di forze in qualche modo superiori, come l’innovazione tecnologica, di fronte al quale non si può far altro che adattarsi. Al contrario, come ricordano Brett Neilson e Ned Rossiter in un famoso saggio dal titolo emblematico Precarity as a Politica Concept, or, Fordism as Exception2, queste sono piuttosto la norma del capitalismo globale, che mai davvero si è emancipato dal lavoro informale, dai pagamenti a cottimo, di relazioni industriali autoritarie e di condizioni di lavoro schiavistiche che ancora dominano lungo la filiera del capitalismo digitale. Secondo stime ILO del 2018, oltre due terzi dei lavoratori nel mondo si trovano oggi in una condizione di informalità che comporta l’assenza di tutele, riconoscimenti legali e accesso ai diritti associati al lavoro subordinato3. Eppure, ciò non ha impedito lo sviluppo di forme di organizzazione collettiva anche in questi contesti. L’economia informale, lungi dall’essere un contesto pacificato, è infatti da tempo attraversata da conflitti che presentano aspetti peculiari nella forma, ma anche nel significato.

©El Pais

Molte delle pratiche introdotte dai lavoratori di piattaforma per organizzarsi – dal mutualismo al contro-utilizzo delle tecnologie digitali – affondano le radici proprio in queste esperienze storiche e transnazionali di organizzazione informale. In assenza di un riconoscimento formale di tutele, le mobilitazioni si sono spesso basate su forme di solidarietà orizzontale, su reti comunicative autogestite, su pratiche di autoformazione e su un contro-uso delle tecnologie finalizzato a sottrarre e sovvertire il potenziale di cooperazione sociale che contraddistingue il lavoro di piattaforma. È il caso, ad esempio, dei gruppi WhatsApp e Telegram, spesso nati come spazi di mutuo-aiuto ma che, in molti casi, hanno svolto un ruolo fondamentale nel coordinare le attività di organizing e di mobilitazione in settori come il food delivery. In assenza di appigli normativi o di supporti organizzative, queste reti, spesso effimere e intermittenti, hanno quindi rappresentato delle vere e proprie “infrastrutture di lotta” autorganizzate, capaci di produrre forme di organizzazione altre rispetto a quelle dei modelli sindacali tradizionali, e in grado di adattarsi ad un contesto organizzativo in grado di sfuggire agli attuali sistemi di organizzazione.
L’associazione con le mobilitazioni dei lavoratori informali, però, non solo ci restituisce una maggiore consapevolezza delle origini del successo dei percorsi sindacali informali, ma anche una lente per ripensare il senso politico di queste lotte. I confini tra la sfera formale e informale dell’economia non sono definibili semplicemente per via giuridica – in questo senso basta pensare a come la formalizzazione prodotta dalle piattaforme digitali non incida sulle condizioni di lavoro dei rider, che restano caratterizzate da povertà e insicurezza – ma sono l’esito di conflittualità, lotte e processi istituzionali. L’economia informale si evolve infatti attorno ai confini delle lotte sociali, incorporando le soggettività che fanno fatica ad organizzarsi e a difendersi, ed espellendo al contrario coloro che diventano troppo conflittuali. In questa prospettiva, le lotte dei lavoratori di piattaforma non sono soltanto lotte per la redistribuzione – ossia per il miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro – ma sono lotte per il riconoscimento, che puntano cioè ad estendere le maglie della protezione lavoristica in modo da includere tutte quelle figure escluse dalle forme “standard” di lavoro. Sta qui il senso del famoso slogan “non per noi ma per tutt*”, ossia mettere in evidenza come la questione riguardi una fetta sempre più ampia di lavoratori e lavoratrici che, in modo ancora più intenso grazie all’impiego delle tecnologie digitali, paga il prezzo della fuga dalla “subordinazione” delle piattaforme digitali non solo in termini di condizioni di lavoro, ma anche di diritti di rappresentanza.
Le esperienze di sindacalismo informale nel capitalismo di piattaforma non sono quindi l’esito di un’adesione ideologica ad un determinato registro di pratiche, ma sono la conseguenza, o se vogliamo il risultato di un processo di adattamento, di un terreno di gioco del tutto destrutturato dall’azione “distruttrice” delle piattaforme. Tuttavia, è proprio in questi vuoti che l’organizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici ha trovato spazio per recuperare vecchie pratiche e sperimentarne di nuove, rinnovando il registro dell’azione sindacale. Eppure, è proprio l’efficacia dimostrata da questo registro ad aver messo in crisi le stesse esperienze di sindacalismo informale. Soprattutto in quegli ambiti di lavoro di piattaforma su cui si è concentrata l’attenzione mediatica, come rider e driver, il procedere dei meccanismi di riconoscimento – leggi nazionali, direttive europee, ma anche accordi di settore come quello con Takeaway.com – ha via via portato a una normalizzazione di alcuni degli ambiti di piattaforma, cedendo il passo ai meccanismi di rappresentanza tradizionale che oggi sono, soprattutto in Europa, la maggioranza in settori come quelli del food delivery e del trasporto passeggeri.
Così, nonostante la capacità delle esperienze di sindacalismo informale di riuscire ad attirare una certa attenzione mediatica nei confronti della loro mobilitazione, poco è rimasto in termini di organizzazione. La capacità di trasformare la vertenza dei lavoratori e delle lavoratrici in uno scandalo mediatico, che ha consentito alle esperienze di sindacalismo informale di bilanciare i rapporti di forza a proprio favore, ha avuto però una durata breve nella quale tali esperienze non state in grado di costruire i presupposti per durare nel tempo. Allo stesso tempo, però, molte delle pratiche sperimentate in questo contesto sono riuscite a penetrare anche all’interno delle organizzazioni sindacali tradizionali, in un qualche modo innovando dall’esterno organizzazioni che solitamente apprendono con molta lentezza. Certo, si tratta di innovazioni parziali, spesso limitate a pochi settori, se non a poche aziende, ma che in un qualche modo ci permettono di guardare alle pratiche di sindacalismo informale e alle lotte per il riconoscimento delle figure poste al margine del mercato del lavoro, come a un promettente laboratorio di pratiche e strategie organizzative per il futuro del lavoro. Se non altro, sono le mobilitazioni di questi lavoratori ad averci fatto capire come, nonostante il potere di cui sembrano disporre al giorno d’oggi, le piattaforme non sono le uniche padrone del loro stesso destino.

© Il Manifesto Sardo
Note
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G. Standing, The Precariat: The New Dangerous Class, London, Bloomsbury Academic, 2011
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B. Neilson - N. Rossiter, Precarity as a Political Concept, or, Fordism as Exception, «Theory, Culture & Society», 25, 7-8, 2008, pp. 51-72
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ILO, Women and men in the informal economy. A statistical picture, 2018: https://www.ilo.org/publications/women-and-men-informal-economy-statistical-picture-third-edition